Sperimentazioni cliniche
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La ricerca clinica sui farmaci è un asset fondamentale per il Servizio Sanitario Nazionale ed il sistema economico. Il nostro paese presenta indubbi vantaggi competitivi, tra cui l’elevato profilo scientifico…

Il volume offre un’analisi completa ed approfondita sulla responsabilità civile, con particolare riferimento a quella oggettiva ed alla responsabilità per esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.). Esamina, con taglio…

Il rapporto fra scienza e diritto pone da sempre eterogenee e numerose questioni problematiche, a partire dalle rispettive caratteristiche: la prima non definitiva e costantemente soggetta a verifica e revisione;…
Risarcimento del danno da sperimentazione clinica
da Ventiquattrore Avvocato||n. 10|p. 34-44|di Tiziana, Cantarella.
LA QUESTIONE
La sperimentazione clinica è sempre lecita? Se nel corso della sperimentazione clinica è cagionato un danno ai soggetti che sono sottoposti – volontari o meno – alla sperimentazione chi ne risponde? L’azienda che esegue la sperimentazione ha l’obbligo di assicurazione?
L’iter per immettere un nuovo farmaco sul mercato
L’iter che si segue per immettere un nuovo farmaco sul mercato è costituito da diverse fasi. La prima è definita preclinica poiché è il momento in cui si verifica se la molecola che si vuole testare possiede l’effetto farmacologico desiderato. La successiva è invece composta da tre diversi ulteriori stadi: farmacologia clinica, studio di efficacia e studio multicentrico. La farmacologia clinica ha lo scopo di accertare la dose massima del farmaco che l’uomo è in grado di tollerare.
Questa fase coinvolge soggetti sani, in numero sempre crescente (circa 200/300) ed è finalizzata a stabilire quale sia il massimo dosaggio per la somministrazione umana.
Il successivo studio di efficacia è realizzato, previa autorizzazione del Ministero della Salute – e nel caso in cui si tratti di un farmaco mai testato prima sull’uomo anche il parere del Istituto Superiore di Sanità – con lo scopo di verificare l’efficacia del farmaco sui pazienti malati. Lo studio multicentrico, infine, estende la sperimentazione a un campione di persone più vasto, onde verificarne gli effetti in base alla risposta individuale della popolazione. Durante il periodo di sperimentazione il farmaco non può essere venduto nelle farmacie ed è somministrato solo a coloro che partecipano allo studio negli ospedali coinvolti nella sperimentazione.
Nei gruppi di ricerca può essere prevista la somministrazione di placebo, ovvero di terapia standard random cioè casuale, affinché non sia noto nemmeno al medico o al paziente il prodotto effettivamente utilizzato e ciò al fine di evitare interferenze nelle valutazioni.
Il rapporto che si crea tra lo sperimentatore e il soggetto che si sottopone a una sperimentazione è di natura contrattuale, in cui il primo deve adempiere alla propria attività con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 c.c.) e il soggetto passivo deve fornire il proprio consenso informato per ognuna delle fasi cliniche; occorre cioè che egli confermi la propria disponibilità a partecipare alla sperimentazione clinica dopo aver ricevuto un’adeguata informazione sui rischi e sui benefici che ne possono derivare, sullo scopo della ricerca, sul tipo di studio e sulla sua durata. In ogni caso il consenso non può derogare i limiti imposti dall’art. 5 c.c. Infatti, l’integrità biologica prevale su altri interessi anche di solidarietà sociale o di libertà personale.
Le responsabilità
Lo sperimentatore è in ogni caso responsabile del danno permanente causato al soggetto su cui è stata effettuata la sperimentazione. L’eventuale danno temporaneo invece non è risarcibile se rientra nei limiti preventivamente individuati e per i quali è stato rilasciato il consenso.
Con specifico riferimento alla struttura sanitaria nel cui ambito viene eseguita la sperimentazione, da ultimo, con Legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. Legge Gelli) è stata riconosciuta la responsabilità civile della stessa ai sensi degli artt. 1228 e 1228 c.c. (art. 7, comma 2).
Dal punto di vista penalistico la responsabilità del medico può qualificarsi come reato doloso nel caso di abuso sperimentale volontario a scopo di ricerca scientifica, ovvero di responsabilità professionale per condotta omissiva, qualora lo sperimentatore abbia omesso di somministrare un farmaco necessario al paziente anche se a fini di ricerca.
Con riguardo invece alla responsabilità da attribuire alla casa farmaceutica, promotrice della sperimentazione, la giurisprudenza della Suprema Corte ha di recente chiarito che, in capo a quest’ultima, sorge unicamente una responsabilità di natura extracontrattuale, salva l’ipotesi in cui, dall’accordo di sperimentazione, risulti chiaramente che la stessa si sia personalmente obbligata verso i destinatari della sperimentazione e che, conseguentemente, la struttura ospedaliera e i medici suoi dipendenti abbiano assunto nei confronti della casa farmaceutica la qualità di ausiliari ai sensi dell’art. 1228 c.c. (Cassazione civile sez. III, 20 aprile 2021, n. 10348).
L’attività pericolosa
L’art. 2050 c.c. statuisce che «Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno». Tale norma fissa una responsabilità oggettiva extracontrattuale che imputa in capo al danneggiante l’obbligo di risarcire i danni cagionati anche in assenza di dolo o colpa, sempre che sussista un nesso di causalità tra il fatto e l’evento dannoso, in modo che il danno risulti conseguenza immediata e diretta del fatto stesso.
Inoltre per colui che esercita una attività pericolosa non è sufficiente fornire la sola prova negativa cioè dimostrare di non aver violato alcuna norma di legge o le norme della comune prudenza, ma è necessario che dia anche la prova positiva, dimostri cioè di aver preso tutte le misure possibili per impedire l’evento dannoso. Conseguentemente, il fatto del danneggiato o del terzo costituiscono prova liberatoria solo nel caso in cui la loro rilevanza o incidenza sia tale che il nesso causale tra attività pericolosa ed evento possa essere escluso in modo certo.
La giurisprudenza maggioritaria è concorde nel ritenere pericolose non solo tutte quelle attività così definite dalla legge o da regolamenti di P.S. o comunque da leggi speciali, ma anche quelle che per loro natura o per i mezzi usati abbiano una pericolosità intrinseca (sul punto, v. Cassazione civile, sez. III, 19 luglio 2018, n. 19180). In tal senso non può esservi dubbio che la sperimentazione sia da considerarsi come attività pericolosa, ancorché lecita, a cui il soggetto si sottopone volontariamente accettando i rischi a essa connessi nei limiti specificati nel consenso rilasciato.
Non sempre però i rischi connessi alla sperimentazione sono prevedibili, perfino dallo sperimentatore.
Sul punto è intervenuto il Legislatore che nell’individuare la tutela da approntare per garantire i soggetti che aderiscono allo studio ha distinto tra soggetti sani e soggetti portatori di patologie e ha riconosciuto a questi ultimi la possibilità di accettare rischi più elevati. Anche il Codice deontologico medico agli artt. 46 e 47 ha individuato il principio a cui lo sperimentatore deve attenersi: la tutela dell’integrità psicofisica della persona. Pertanto, la sperimentazione può essere inserita in trattamenti diagnostici o terapeutici solo quando sia «razionalmente e scientificamente suscettibile di utilità diagnostica o terapeutica per i cittadini interessati» e «ispirando la scelta e regole prudenziali di fondo».
In conformità a quanto già disposto dal legislatore, si è di recente pronunciata la Suprema Corte precisando che, ai fini della prova liberatoria dalla responsabilità per danni alla persona derivanti dai c.d. “effetti collaterali indesiderati” – consistente nell’avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno – occorre valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni ed i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e commercializzazione del farmaco, dall’altro, l’adeguatezza della segnalazione al consumatore dell’effetto indesiderato; Cassazione civile, sez. III, 7 marzo 2019, n. 6587).
Comitati etici
L’Unione Europea ha emanato numerose normative per la tutela dei soggetti sottoposti a sperimentazione e nel 1991 ha infine stabilito le «Linee guida di buona pratica clinica per l’esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali». Lo Stato italiano nel 1997 ha recepito la normativa europeadefinitivamente stabilendo che, fatte le salve specifiche competenze del Ministero della Sanità, per l’esecuzione di ogni tipo di sperimentazione, i relativi protocolli sperimentali e i documenti connessi è necessario ottenere una preventiva quanto vincolante approvazione da parte dei c.d. Comitati etici indipendenti.
«Il Comitato etico per le sperimentazioni cliniche dei medicinali, è un organismo indipendente che ha la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tale tutela. Il comitato può essere istituito nell’ambito di una o più strutture sanitarie pubbliche o a esse equiparate, o negli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico privati, limitatamente alle sperimentazioni nell’area di ricerca in cui hanno ottenuto il riconoscimento, conformemente alla disciplina regionale o delle province autonome in materia».
In ordine alla sperimentazione clinica dei medicinali il Comitato etico è tenuto a verificare l’applicabilità della sperimentazione proposta valutandone: il razionale, l’adeguatezza del protocollo (obiettivi, disegno, conduzione, valutazione dei risultati) nonché la competenza e l’idoneità dei ricercatori. Per quel che attiene agli aspetti etici è inoltre tenuto a effettuare controlli in relazione al consenso informato e alla tutela e riservatezza dei dati personali dei soggetti coinvolti nella sperimentazione, per salvaguardarne i diritti, la sicurezza e il benessere.
Il nucleo operativo di un Comitato etico dovrebbe preferibilmente comprendere diverse specializzazioni e competenze, in particolare dovrebbero farne parte due clinici, un biostatistico, un farmacologo, un farmacista, il direttore sanitario e un esperto in materia giuridica. Tale organo deve essere inoltre totalmente imparziale e indipendente, per collocazione e interessi, da chi esegue la sperimentazione.
L’assicurazione obbligatoria e i danni risarcibili
Rientra sempre nei compiti dei Comitati etici la verifica che lo sponsor della sperimentazione abbia provveduto a garantire la ricerca con idonea copertura assicurativa o finanziaria, che tuteli sia gli sperimentatori che le strutture in cui viene eseguita la sperimentazione da eventuali richieste di risarcimento danni. In realtà la norma limita l’obbligo di copertura ai soli eventi dannosi causati ai soggetti sottoposti a sperimentazione per caso fortuito e non imputabili al comportamento professionalmente colposo dello sperimentatore.
La garanzia assicurativa deve coprire tutti i possibili costi che il soggetto che ha subito danni, o complicanze nel suo stato di salute, a causa della sperimentazione deve sopportare per sottoporsi a nuovo o ulteriore trattamento medico per eliminarne o lenirne le conseguenze. Per quel che invece attiene a eventuali danni – patrimoniali e non patrimoniali – imputabili alla colpa professionale dello sperimentatore o a carenze della struttura ove si compie la sperimentazione, dal punto di vista civilistico rispondono in via solidale la struttura stessa e lo sponsor. Ai medesimi soggetti può essere anche addebitata una responsabilità penale che a secondo dei casi può consistere nel reato di lesioni colpose (art. 590 c.p.) o di omicidio colposo (art. 589 c.p.).
L’interpretazione ufficiale della norma di costituzione dei comitati etici ha inoltre riconosciuto che «il consentire una sperimentazione non sufficientemente garantita dal punto di vista assicurativo potrà far cadere sui componenti dello stesso comitato una responsabilità analoga a quella degli sperimentatori del denegato caso che uno o più soggetti che sono sottoposti a sperimentazione subiscano a causa di questi danni per cui indennizzo o risarcimento offerti non coprano integralmente il reale esborso da sostenere». Con specifico riferimento all’obbligo assicurativo la Legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. Legge Gelli) all’art. 10 ha esteso l’obbligo assicurativo delle strutture sanitarie anche all’attività di sperimentazione e ricerca clinica.
Il diritto alla salute e la sperimentazione clinica
La sperimentazione clinica richiede lunghe, costose e complesse attività di studio che non possono prescindere, in alcun modo, da una fase di verifica sull’uomo, atteso che è proprio nei suoi confronti che il farmaco e l’indagine diagnostica dovranno essere utilizzati. È necessario quindi chiarire entro quali limiti essa sia lecita e ammissibile e non violi i diritti e i valori fondamentali dell’uomo. Sul punto la dottrina è essenzialmente divisa in due opposti orientamenti. Il primo, totalmente restrittivo nega la liceità di qualsiasi tipo di sperimentazione sull’uomo, il secondo più permissivo riconduce i limiti e la liceità della sperimentazione clinica a quelli più generali di ogni altro atto medico.
I sostenitori della teoria più severa affermano che l’illiceità della sperimentazione sull’uomo deriva dalla prevalenza che il nostro ordinamento riconosce all’interesse del singolo sull’interesse collettivo. Con la sperimentazione, invece, si violerebbe l’integrità della persona umana, elemento essenziale dell’ordine sociale a cui l’ordinamento assicura la difesa, con la conseguenza che la ricerca scientifica sarebbe lecita solo nella misura in cui non pregiudicasse la salute umana. Pertanto, non sarebbe sufficiente a legittimare la sperimentazione biologica nemmeno la prospettiva di un miglioramento del benessere psicofisico della collettività, per la prevalenza della tutela costituzionale della salute (art. 32 Cost.) su quella più sommaria della ricerca in genere (art. 33 Cost.)
Coloro che, invece, sostengono la tesi più permissiva, ritengono lecita la sperimentazione sul presupposto che l’art. 32 della Costituzione tutela la salute non solo come diritto fondamentale dell’individuo, ma anche come interesse della collettività. Conseguentemente il fine solidaristico della sperimentazione giustificherebbe anche l’eventuale sacrificio della propria salute.
Affinché la sperimentazione avvenga lecitamente il soggetto deve in ogni caso prestare il proprio consenso al trattamento, che nella sperimentazione clinica deve essere particolarmente specifico e puntuale. Esso deve essere dato in forma scritta e accettato in maniera libera, consapevole e solo dopo una specifica informativa. Questa deve quindi contenere tutte le informazioni sui possibili rischi connessi al trattamento, sui metodi che saranno usati, sugli eventuali benefici, nonché la specifica menzione del diritto di potersi ritirare in qualsiasi momento. Ugualmente precisa e rigorosa deve essere la scelta dei soggetti da sottoporre a sperimentazione.
Il consenso informato
Il soggetto sottoposto a sperimentazione – perché essa possa attuarsi lecitamente – deve essere informato in maniera specifica riguardo la diagnosi, la prognosi, il tipo di trattamento che gli viene offerto, le eventuali alternative terapeutiche disponibili, gli effetti collaterali e tossici, i risultati previsti con la sperimentazione proposta e quelli attesi con le altre alternative terapeutiche disponibili.
Una corretta informazione riguardo le alternative terapeutiche esistenti – già dovuta per qualsiasi atto medico – è nel caso della sperimentazione particolarmente necessaria e deve contenere l’indicazione esatta di ciò che nella condizione clinica specifica può essere considerato stato dell’arte. Il soggetto sottoposto a sperimentazione deve, quindi, essere informato riguardo al trattamento convenzionale al quale sarebbe sottoposto nel caso in cui non accettasse – o non gli fosse stato proposto – di essere inserito nella sperimentazione.
Oltre alle suddette informazioni – del tutto conformi a quelle che dovrebbero essere date per qualsiasi altro atto medico – lo sperimentatore dovrebbe fornire al soggetto notizie sullo studio a cui gli si chiede di partecipare. Pertanto, lo sperimentatore dovrebbe spiegare sia la natura della sperimentazione che i suoi obiettivi, nonché le regole di assegnazione seguite nel trattamento. Inoltre, egli sarebbe tenuto a illustrare al soggetto la eventuale necessità di essere sottoposto a esami clinici aggiuntivi nel corso della sperimentazione, non previsti invece qualora questi fosse curato convenzionalmente.
Lo sperimentatore dovrebbe poi informare il soggetto sottoposto allo studio sui suoi diritti quali ad esempio la possibilità di rifiutare l’ingresso nella sperimentazione senza che ciò comporti la perdita del diritto di essere comunque seguito dalla struttura sanitaria. Parimenti, il soggetto sottoposto a studio dovrebbe conoscere il suo diritto di poter uscire dallo studio quando vuole, se lo desidera, e di verificare – direttamente o tramite i suoi familiari – i risultati dello studio quando questi siano pubblicati. Da ultimo, lo sperimentatore, dovrebbe informare il soggetto su eventuali compensi previsti per coloro che si sottopongono a sperimentazione e fornire notizie in ordine alla polizza assicurativa per gli eventuali danni cagionati nel corso dello studio.
Solo all’esito di tale puntuale informativa il soggetto potrà decidere consapevolmente se accettare o meno di entrare nello studio (in tal senso, v. Tribunale di Napoli, ordinanza 3 febbraio 2022, secondo il quale il consenso informato si configura quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, nonché quale vero e proprio diritto alla persona, trovando fondamento negli artt. 13 e 32 Cost.). In caso positivo, il consenso dovrà essere sempre dato in forma esplicita e per atto scritto.
In conclusione, quindi, il paziente deve essere posto nelle condizioni di poter meditare sulle possibili alternative all’intervento terapeutico proposto o ricorrere anche a diverse strutture, oppure ancora di accettare l’idea di subire interventi demolitivi. Ne consegue – come più volte già affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte – che, in caso di inadeguato o assente consenso informato del paziente, l’azienda ospedaliera è tenuta a risarcire il danno derivante dalla lesione del diritti all’autodeterminazione di quest’ultimo (v. Cassazione civ., sez. III, 3 novembre 2020, n. 24462).
Considerazioni conclusive
Alla luce delle tematiche affrontate appare evidente la volontà del Legislatore di garantire che ai soggetti sottoposti alla sperimentazione sia riconosciuto un alto livello di protezione da parte di tutti gli organismi a vario titolo a ciò preposti: sperimentatori, ente ospedaliero, sponsor, comitati etici indipendenti, Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità. Ognuna di queste figure è quindi tenuta, nell’ambito della propria competenza e responsabilità, a effettuare i necessari controlli ed esprimere le dovute valutazioni e autorizzazioni, nel rispetto delle norme nazionali e degli standard internazionali di etica e qualità scientifica della Buona Pratica Clinica – G.P.C.
La finalità comune che si tende a garantire è quella della reale utilità della ricerca, della sua accuratezza e dell’attendibilità dei dati in essa riportati e ciò non solo per il buon esito dello studio, ma per la salvaguardia dei diritti, dell’integrità e della riservatezza di tutti soggetti che volontariamente si sono sottoposti alla sperimentazione
I contratti di sperimentazione clinica
da Contratti – La Rivista ||n. 2|p. 2|di Avv. Fausto Massimino
I contratti di sperimentazione clinica
1. Premessa
La crisi pandemica da Covid 19 ha originato nell’opinione pubblica un’attenzione verso la ricerca clinica e lo sviluppo dei medicinali che non ha precedenti, al punto da diventare argomenti da conversazione pubblica, senza che però il dibattito sia stato sostenuto dall’approfondimento che la complessità della tematica avrebbe richiesto.
Al contrario, attraverso una saldatura tra pulsioni antipolitiche e irrazionali, aggravate da un disagio sociale che ha individuato nel vaccino e nelle misure di prevenzione sanitaria uno strumento di controllo collettivo, si è preteso di interpretare la realtà secondo schemi teleologicamente orientati a riscontrare nei fatti la conferma di un pregiudizio, applicando così anche alla ricerca clinica in tempo di pandemia da Covid 19 il consolidato confirmation bias che viene puntualmente utilizzato come chiave di lettura dei comportamenti dell’industria farmaceutica.
In un contesto inquinato da stravaganti paralogismi e contestazioni apodittiche nei confronti dei vaccini o delle misure di prevenzione del contagio, si è così inevitabilmente verificata l’incomprensione delle più elementari categorie regolatorie, che indirizzano l’approvazione dei medicinali e dei vaccini sulla base di procedure certe e codificate e, nel contempo, sono state largamente fraintese anche le nozioni scientifiche e giuridiche che guidano la sperimentazione clinica.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si può notare – non senza sconforto – l’affermazione della vulgata secondo cui i vaccini anti Covid 19 sarebbero sostanzialmente privi di un’approvazione da parte delle autorità sanitarie, e che dunque la loro somministrazione corrisponda di fatto all’esecuzione illecita di uno studio clinico di massa su un prodotto ancora in fase sperimentale.
La realtà, ovviamente, è ben diversa.
Infatti, i vaccini anti Covid 19 sono stati approvati dalla European Medicines Agency (EMA) tramite la cosiddetta autorizzazione all’immissione in commercio condizionata (Conditional Marketing Authorization – CMA), che non è affatto uno strumento regolatorio inusuale o elaborato ad hoc nelle circostanze emergenziali della pandemia, ma è invece previsto sin dal Regolamento CE 726 del 2004, che all’art.14, par. 7 rinviava la regolamentazione più dettagliata ad un successivo testo normativo, successivamente concretizzatosi nel Regolamento CE 507/2006.
In estrema sintesi, si tratta di un’AIC temporanea di durata annuale rinnovabile, che si differenzia dall’AIC standard perché viene rilasciata in presenza di dati clinici meno completi di quelli richiesti abitualmente, ma comunque già idonei a garantire un rapporto rischio/favorevole rispetto alle esigenze cliniche dei pazienti. È definita “condizionata” perché il suo titolare è soggetto all’adempimento di obblighi specifici, quali il completamento di ulteriori studi clinici, ultimati i quali essa viene convertita in una AIC ordinaria (1).
Relativamente alle sperimentazioni cliniche, invece, non si è mancato di strologare sulla presunta anomalia procedurale che avrebbe consentito di approvare i vaccini anti-Covid 19 entro tempi particolarmente accelerati, a discapito delle normative tecniche che ne disciplinano la conduzione, a detrimento dei pazienti e – ça va sans dire – a tutto vantaggio delle imprese farmaceutiche.
Chi scrive non si nasconde che sarebbe sicuramente un “vasto programma” quello che mirasse a sovvertire simili convinzioni, che traggono origine dal patrimonio di pregiudizi più radicati a cui attingere per trovare una qualche sicurezza nella volatilità e nell’incertezza quotidiana.
Ciò non toglie che sia comunque doveroso un tentativo di chiarimento della tematica delle sperimentazioni cliniche e, in particolare, dei contratti che regolamentano la relazione tra impresa farmaceutica e struttura sanitaria, illudendosi che anche una breve nota di contenuto giuridico possa rappresentare un minimo baluardo nei confronti della “vulnerabilità informativa di gregge”: certamente non è pensabile che possa arginare il volume di fuoco delle fantasticherie dei social network ma, facendo appello all’ottimismo della volontà, si può auspicare che anche questo intervento possa essere di qualche beneficio per la logica e per l’ancora più basico buon senso.
Prima di esaminare la struttura del contratto di sperimentazione è però opportuno precisare rapidamente le caratteristiche le finalità dello studio clinico.
2. La sperimentazione clinica: finalità e quadro normativo
In termini generali, si può rilevare che la ricerca clinica soggiace a regole sostanzialmente unitarie, qualunque ne siano
- l’oggetto (medicinali, dispositivi medici, test diagnostici, tecniche chirurgiche, applicazioni d’intelligenza artificiale, percorsi assistenziali, etc.),
- la modalità (interventistica, osservazionale, meramente statistica, …) o
- i soggetti attori (o stakeholder): autorità regolatoria, impresa farmaceutica, centro sperimentale, sperimentatori, pazienti, comitati etici, organizzazioni di ricerca a contratto, Servizio Sanitario Nazionale (SSN) nelle sue articolazioni regionali,
perché l’obiettivo è sempre quello di soddisfare un bisogno inevaso di conoscenza, che è funzionale al progresso della salute.
A questo fine, con il rigore proprio del metodo scientifico, si combinano fra loro le idee, le esigenze e le esperienze dei diversi stakeholder, che proprio nella ricerca clinica possono operare in modo produttivo grazie alla collaborazione tra settore pubblico e privato, che può garantire un chiaro e trasparente beneficio agli interessi di entrambi (2). D’altra parte, sia che si svolgano in un contesto accademico, oppure all’interno del SSN o, ancora, nell’ambito dell’industria farmaceutica, le attività di ricerca scientifiche, cliniche e di laboratorio sono sempre finalizzate all’individuazione di soluzioni innovative, con un obiettivo assistenziale-curativo.
La nozione di sperimentazione clinica (3) è riconducibile all’interno della più vasta categoria della ricerca clinica, e ricomprende qualsiasi studio sull’uomo finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia (art. 1 lett. a) d.lgs. 211/2003), attuato secondo metodiche standardizzate e soggette a controllo statistico (4).
La disciplina generale di riferimento è attualmente rintracciabile soprattutto nel d.lgs. 211/2003, che ha recepito nell’ordinamento italiano la direttiva 2001/20/CE. Per completezza di informazione, occorre tuttavia sottolineare che il 16 aprile 2014 è stato approvato il Regolamento UE/536/2014, che sostituirà la direttiva 2001/20/CE e verrà integrato automaticamente nelle legislazioni nazionali di tutti i paesi membri: poiché, però, il nuovo regolamento entrerà in vigore nel febbraio 2022, in questo articolo si farà ancora prevalentemente riferimento alla normativa italiana (5).
In applicazione dei principi di precauzione e proporzionalità, le sperimentazioni cliniche mirano ad accertare qualità, sicurezza ed efficacia del medicinale prima che sia immesso in commercio, e si configurano quindi quali strumenti di tutela ex ante del paziente, in una prospettiva di minimizzazione del rischio (6).
Ai sensi dell’art. 1 lett. q) del d.lgs. 200/2007, infatti, le sperimentazioni possono perseguire fini industriali o fini commerciali, i cui risultati possono essere utilizzati nello sviluppo industriale del farmaco, o fini regolatori, o fini commerciali, ed in questo caso esse possono essere promosse da imprese farmaceutiche, o comunque da strutture private a fini di lucro, ad eccezione degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico privati. Vi sono poi le sperimentazioni non a fini industriali o non a fini commerciali, definite all’art. 1 lett. q) del d.lgs. 200/2007, che si prefiggono essenzialmente un fine di miglioramento della pratica clinica senza approdi registrativi.
In ogni caso, la sperimentazione clinica è sempre quella fase della ricerca in cui le ipotesi speculative, formulate in sede di ricerca teorica o di laboratorio (pre-clinica), vengono “traslate” su pazienti reali e verificate nella realtà. Non vi sono, all’inizio di una sperimentazione clinica, certezze acquisite circa il suo esito né per gli ideatori del protocollo, né per i ricercatori (diversi dai e ben più numerosi dei primi) che la svolgono, né per gli sponsor che la promuovono, con finalità accademiche o industriali/commerciali.
Anche per questo motivo è comunque obbligo del soggetto che promuove lo studio clinico pubblicare i risultati, quand’anche siano negativi perché non hanno raggiunto l’end point che ci si prefiggeva: un simile obbligo è stato introdotto da EMA nel luglio 2014 (7) a garanzia dell’etica della ricerca e della trasparenza dei suoi dati, ma anche a beneficio dello sviluppo della conoscenza, che si può arricchire anche grazie all’approfondimento degli esiti non corrispondenti alle aspettative.
La sperimentazione clinica è avviata dal promotore (8) (comunemente definito anche sponsor) e può essere attuata in un’unica struttura sanitaria oppure in più centri, sempre con un unico protocollo che ne descriva obiettivo, progettazione, metodologia e organizzazione, definendosi in tal caso “multicentrica” (art. 1 lett. b) d.lgs. 211/2001).
Tutto questo avviene ovviamente nell’ambito di un’attività generale di controllo sul protocollo clinico predisposto dal promotore, controllo che l’ordinamento assegna ai comitati etici delle strutture partecipanti e all’”Autorità competente” che, a partire dal 2012, è rappresentata unicamente dall’AIFA, alla quale, ai sensi dell’art. 12, comma 9 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189) sono state trasferite tutte le competenze di cui all’articolo 2, comma 1, lettera t), numeri 1) e 1-bis), del decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 – che le avevano parcellizzate tra le strutture sanitarie partecipanti allo studio – nonché quelle in precedenza attribuite all’Istituto superiore di Sanità (ISS).
AIFA è tenuta ad esaminare il protocollo sotto ogni profilo rilevante, avvalendosi per ogni eventuale necessità di approfondimento dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ed interloquendo pro-attivamente con il promotore. L’autorizzazione dell’AIFA costituisce condizione per l’effettuazione della sperimentazione ed è subordinata all’accertamento dei requisiti essenziali di tutela del paziente sottoposto alla terapia sperimentale.
A questo proposito è significativo l’art. 3 comma 1 del d.lgs. 200/2007, il quale stabilisce che “la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti della sperimentazione prevale sugli interessi della scienza e della società.” Conseguentemente, ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. a) del d.lgs. 211/2003, essa può essere intrapresa soltanto se il comitato etico e l’autorità competente hanno adeguatamente soppesato i rischi correlati, giungendo alla conclusione che essi sono superati dai benefici attesi.
Come si chiarirà meglio nei successivi paragrafi, una simile valutazione deve essere condivisa con il paziente nell’ambito del processo di acquisizione del consenso informato, con la previsione di specifiche garanzie a favore dei minori (art. 4 del d.lgs.211/2003) e degli adulti incapaci di esprimere validamente il proprio consenso (art. 5 del d.lgs. 211/2003).
A garanzia di una molteplicità di interessi privati, ma anche pubblici e collettivi, la sperimentazione clinica presuppone quindi l’attuazione di un articolato processo valutativo e approvativo, che ha il suo epilogo nel contratto di sperimentazione clinica, il quale ha l’obiettivo precipuo di disciplinare il rapporto tra il promotore e la struttura sanitaria, ai fini della corretta attuazione del protocollo e della migliore tutela degli interessi coinvolti.
3. Il contratto di sperimentazione clinica: attività e responsabilità del promotore della struttura sanitaria e dei medici
Un’attenta analisi della struttura degli accordi di ricerca clinica (9) e delle loro finalità consente in primo luogo di precisare che l’azienda che promuove la sperimentazione è obbligata alla fornitura del farmaco sperimentale.
Sotto questo profilo, è evidente che l’impresa è tenuta ad assicurare la continuità dell’approvvigionamento del medicinale per tutta la durata dello studio. Vi è però da considerare un altro aspetto meritevole di attenzione, e precisamente che il prodotto, per il fatto stesso di essere ancora sperimentale, può essere definito sicuro in termini legali soltanto con opportune riserve, legate alla necessità di approfondire comunque in modo definitivo, tramite lo studio stesso, le conoscenze scientifiche sul prodotto.
In ragione di ciò, l’azienda sponsor è comunque tenuta a indennizzare il paziente, ma non può essere considerato responsabile nei confronti dell’ente per i danni derivanti dalla somministrazione di un farmaco rivelatosi insicuro proprio a seguito della sperimentazione stessa, ma non ancora giudicabile come tale alla luce delle conoscenze scientifiche possedute in precedenza. Ciò a meno che il difetto di conoscenza in merito alle reali prerogative del medicinale non sia in realtà meramente soggettivo, cioè dovuto all’inidoneità dell’impresa produttrice, e configuri quindi comportamento colposo in capo a quest’ultimo: ove non ricorra quest’ultima ipotesi si può quindi affermare che, nei confronti della struttura sanitaria, lo sponsor beneficia per analogia delle medesime cause di esonero della responsabilità previste alle lett. a), c) ed e) dell’art. 118 del d.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) in materia di responsabilità da prodotto difettoso.
In base al contratto, la fornitura del medicinale è funzionale all’applicazione da parte dell’ospedale del protocollo di somministrazione elaborato dallo stesso promotore, che deve anche attuare la sorveglianza della conformità tra il protocollo e la concreta attività clinica esercitata dagli operatori sanitari nel corso dello studio.
Al fine di realizzare questi adempimenti, l’impresa è anche committente di un servizio, che la struttura sanitaria svolge in autonomia, facendosi carico di una gestione imprenditoriale, che, tra l’altro, ben si concilia con il profilo aziendale attribuito alla struttura sanitaria pubblica dal D.Lgs. 502/1992, confermato dal D.Lgs. 517/1993 e ribadito, da ultimo, dal d.lgs. 229/1999.